Il lungo viaggio


 

Ho visitato la mostra di Robert Capa in un museo di Nuoro.

Ho bevuto un aperitivo seduto su una panchina, coi piedi sul parapetto che mi separava da un'ansa del Danubio.

Ho salutato con imbarazzo un cameriere inglese con una stretta di mano, lui si aspettava una mancia ma io ero giovane e senza soldi.

Ho dormito sdraiato sulla retina portabagagli dello scompartimento di un treno da Bari a Roma.

Mi sono calato da uno strapiombo di cento metri appeso ad una corda.

Sono passato sotto monti, fiumi, canali navigabili e piste d’aeroporto.

Sono passato su un ponte che unisce l’Europa all’Asia e su dighe olandesi.

Ho strisciato carponi dentro il torrente di una grotta e sono rimasto incastrato in un passaggio a clessidra.

Ho volato dentro ad un abitacolo di latta.

Ho avuto paura trovandomi per caso solo dentro una camera a gas di Mauthausen.

Ho attraversato a piedi il Ponte delle catene di Budapest.

Ho bevuto una birra gelata offerta prima ancora di dirmi “benvenuto” dal gestore di un camping a conduzione familiare a Praga.

Sono rimasto senza carburante e sono andato a cercarlo con la bicicletta su un’autostrada slovacca.

Ho poggiato le spalle su ciò che resta del muro di Berlino.

Ho attraversato il tirreno con una barca di otto metri.

Ho valicato gli stessi passi alpini di Annibale.

Ho attraversato un bosco innevato con una motoslitta.

Mi sono tolto un paio di jeans nuovi e ho visto le mie gambe diventate blu, dopo un acquazzone tropicale a San Juan di Portorico.

Ho dormito all’addiaccio in un bosco pensile sospeso sul mare.

Mi sono perso in piena notte in mezzo ai monti a pochi chilometri da casa, avevo dodici anni e il mio compagno pochi più di me.

Ho risalito sentieri di montagna e disceso cascate.

Ho attraversato l’oceano con un transatlantico, cambiando l’ora tutte le notti.

Ho fatto 60 miglia a vela con mio padre e mio figlio.

Mi sono ritrovato, io bianco in divisa bianca, dentro ad un supermercato riservato alla gente di colore.

Ho visto il sole levarsi dietro ad una raffineria di Curacao.

Sono salito con una funivia che oggi non esiste più, su una montagna sopra a Caracas.

Ho risalito il Rio de la Plata fino a Buenos Aires.

Ho passeggiato col mio cane lungo le rive del Bosforo.

Ho dormito nel piazzale di una delle più belle moschee del mondo. Mi sono seduto per terra al suo interno, insieme a gente di un'altra religione che non mi guardava male.

Ho fotografato le Rose di Sarajevo e individuato con sgomento le foreste di lapidi bianche sulle colline dei dintorni.

Ho guidato nel traffico di Sofia, di Istanbul e di Tirana.

Ho visto una coppia di anziani giocare a dama a fianco del loro camper da hippie. Eravamo in mezzo alla Francia, pioveva e si riparavano con un ombrello, ma erano visibilmente felici e li ho invidiati.

Ho pedalato lungo le vie di Amsterdam.

Ho rischiato la vita per colpa di uno stupido ragazzino danese che mi ha sparato.

Ho aiutato un ragazzo inglese che era rimasto in panne e riprendere il viaggio.

Ho visto con delusione il misero corso del Manzanarre e l'ho paragonandolo a quello maestoso del Reno.

Ho fatto anche cose futili, come salire sulla tour Eiffel, mettermi a gambe aperte sul meridiano di Greenwich, salire su un otto volante acquatico in giacca e cravatta a Rimini.

E ancora tanti, tanti, tanti chilometri a piedi, in allegra compagnia ma anche in solitudine.

Ho fatto del viaggio una lunga esperienza senza soluzione di continuità, cercando di goderlo dall’inizio alla fine. Perché non ha senso arrivare a calcare le più belle piazze del mondo, se non puoi ricordare come ci sei arrivato. Ma soprattutto se non hai voglia di vedere cosa c’è più oltre.

2 ottobre 2017

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