Andiamo a sfregiare una statua.

 


Quand’ero bambino nel 1961 sbarcai in Sardegna per la prima volta. Era piena estate, mio padre veniva per lavorare e noi della famiglia al seguiti per goderci quelle spiagge destinate a diventare famose. Ma allora del turismo di massa non c’era ancora nemmeno il sentore. Mio padre era un ortopedico e lavorava per un ente pubblico che esiste ancora oggi, l’INAIL. Solo che l’assetto della sanità pubblica era molto diverso. Le ASL che tanto hanno distrutto di quell’efficienza, non erano ancora state inventate e l’INAIL (Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro) possedeva e gestiva in proprio degli ospedali. I così detti centri traumatologici, oggi noti come CTO. Ad Iglesias c’erano ancora le miniere aperte, attività industriali che come si sa sono sempre state ad alto rischio infortunistico. Per questa ragione vi era stato edificato uno di questi prestigiosi centri, che peraltro serviva anche gran parte dell’intera isola.

I centri traumatologici avevano annesse delle abitazioni, che fungevano in parte da alloggi per i dipendenti e in parte da foresteria per il personale occasionale non residente. La stessa cosa accadeva nei villaggi delle vicine miniere. La mia famiglia venne ospitata in uno di quegli appartamenti e mi è rimasto impresso il ricordo del suo arredamento spartano. Perché c’era ancora un occhio attento all’economia, e gli arredi erano quelli riciclati dall’ospedale. In particolare inquietanti letti e armadi di metallo verniciato di bianco latte. Ma non solo, quelle case avevano a corredo anche le stoviglie da cucina con una particolarità in più. Sul bordo dei piatti di ottima fattura “Richard Ginori”, c’era ancor stampigliato lo stemma dei Savoia e la sottostante scritta I.N.F.A.I.L.
Per i meno attenti spiego meglio, si trattava dell’acronimo INAIL ma con una F diventata di troppo. Stava per fascista, e quei piatti poiché come ho già detto erano di ottima fattura, sopravvivevano dopo diciotto anni dalla caduta del Duce. Altri tempi altro modo di pensare, le ferite della guerra non si erano ancora cicatrizzate del tutto e non si guardava troppo per il sottile. Di quella estate ho un ricordo bellissimo. In quelle case tornammo due anni dopo per stabilirci definitivamente e ci passai l’adolescenza.
Tra i figli dei dipendenti residenti vigeva una sorta di livellamento sociale. Non si faceva distinzione com’era giusto che fosse, tra il figlio del primario e quello dell’infermiere. Alla sera ci si sedeva a giocare sugli scalini di una delle palazzine, e quando arrivava uno degli adulti che rientrava a casa, ci si alzava tutti in piedi anche se lo spazio per farlo passare non mancava. Tutti, in segno di rispetto, non faceva differenza l'importanza dell'adulto, era un adulto e basta.

Ma già tra il 1961 e il 1963 era cambiato qualcosa: le abitazioni per i trasfertisti erano le stesse, ma la direzione aveva ricevuto l’ordine di distruggere quel vasellame infetto da una F di troppo. Negli stessi anni sparirono molti dei simboli del fascismo ancora rimasti. Ad esempio i fasci di cui erano adorni i pilastri che si trovano ancora oggi all’inizio del ponte vecchio, che a Oristano scavalca il Tirso. Ma torniamo ai nostri giorni.
Prendersela con un simbolo, un piatto, una statua, o una scultura all’ingresso di un ponte, trovo che sia un’azione meschina oltre che inutile. Passata la tempesta è troppo comodo. Quando poi sono passati più di cinquecento anni, come nel caso di Cristoforo Colombo si cade addirittura nel ridicolo. E’ molto meglio che i ricordi restino vivi, non fosse altro che per pensare passando: “tò, ma guarda quanto eravamo imbecilli”. Peraltro una statua o un oggetto di pregevole fattura meriterebbero il rispetto almeno per l’artista o artigiano che li ha creati. Che spesso ha poco a che fare con l’ideologia rappresentata, magari suo malgrado. La storia va salvata, sempre.


E comunque detto fra noi ho il sospetto che qualcuno di quei piatti si sia salvato, così, tanto per non dimenticare


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