Nata in mare

l 22 agosto del 2008 al rientro da uno dei nostri viaggi ci imbarcammo a Genova per Porto Torres, insieme ad una massa di turisti festanti che in Sardegna ci sta andando in vacanza, non come noi che invece ci abitiamo. Il lieve malumore per il rientro al solito tram tram è stemperato dalla bella giornata, la traversata è diurna e siamo riusciti a sistemarci ai bordi della piscina, in fin dei conti abbiamo ancora a disposizione un ultimo giorno di relax.


Si parte puntuali ma dopo qualche ora di tranquilla navigazione, mentre sono mollemente adagiato su una sdraio, mi accorgo per caso che c’è qualcosa che non va. Il sole sta passando molto lentamente, innaturalmente, da una murata all’altra e da prua verso poppa, siccome è quasi mezzogiorno e siamo in piena estate la cosa è appena percettibile, ma io ho un occhio per così dire navigato. Mi metto in piedi, il mare è completamente calmo e la scia della nave è leggermente curva, anch’essa in modo appena percettibile perché la curvatura inizia a intuirsi quando la turbolenza creata dalle eliche, poco lontano si è appena spenta. L’orizzonte ha completato il suo cerchio blu a trecentosessanta gradi, non ci sono più punti di riferimento costieri in qualunque direzione si guardi, quindi è difficile accorgersi della manovra. Ma ormai ne sono certo, abbiamo virato di 180°, quindi escludo che sia una semplice accostata fatta per evitare di interferire con la rotta di qualche altra nave.



Guardo mia moglie e le dico: 
– Stiamo tornando a Genova sei contenta?
Lo dico a voce alta, la piscina è piena di gente e i vicini di sdraio mi guardano come se fossi matto, prima di convincersi che evidentemente sto scherzando. Passa un'altra ora e finalmente gli altoparlanti di bordo si decidono a darmi ragione e ad ammettere la manovra in corso. Dopo una serie di scuse più o meno confuse ci mettono al corrente del motivo: una giovane signora ha gli evidenti sintomi di un parto prematuro, la nave sta effettivamente rientrando al porto di partenza e la guardia costiera è in stato di allerta.

Infatti siamo ancora in alto mare quando arriva un elicottero e comincia a volteggiare all’intorno come uno sgraziato avvoltoio. Poi si intravedono due puntini lontani a nord, che rapidamente diventano due veloci motovedette. Raggiungono la nave poco dopo, una rimane poco lontano, di guardia per ogni evenienza. L’altra accosta sul lato sottovento e il trasbordo della partoriente avviene sotto gli occhi trepidanti di tutti ma in religioso silenzio. Attraverso il portellone del pilota una barella passa sostenuta da cento robuste mani di marinaio, dalla grande alla piccola imbarcazione. La seguono il medico di bordo e naturalmente il marito. Il tutto avviene in brevissimo tempo, in uno sfavillio di lampeggianti d’emergenza e con un sommesso sottofondo di ordini scambiati via radio. Non appena la delicata operazione termina e la piccola task force accenna ad allontanarsi, esplode l’applauso liberatorio dei passeggeri accompagnato da grida di auguri. La sirena della nave saluta il nascituro mentre si allontana verso un sicuro ospedale, lasciando due lunghe scie di spuma bianca. Poi si inverte nuovamente la rotta e si riprende il viaggio con sole quattro ore di ritardo. Ore che per me sono state un lungo e commovente déjà-vu.


Alla fine dell’estate del 1961 rientravo con la mia famiglia dalle vacanze che avevamo trascorso per la prima volta in Sardegna, senza sapere che di li a due anni, in preda ad una sorta di mal d’africa, ci saremo ritornati per sempre. Per la verità in vacanza eravamo solo noi bambini, mio padre che era ancora agli inizi della sua lunga e brillante carriera, c‘era andato per sostituire un collega partito a sua volta per le ferie. Eravamo sulla medesima rotta ma in senso contrario, di notte anziché di giorno, a bordo di un vecchio e scassato piroscafo della Tirrenia. Si chiamava Olbia, imbarcava ancora le auto con la gru perché i traghetti col portellone non esistevano ancora.




Per raggiungere il porto d’imbarco avevamo viaggiato tutto il giorno con una 1100 Fiat vecchia almeno quanto la nave. Da Iglesias risalimmo la SS 131 meglio nota come Carlo Felice, in onore del viceré che la fece tracciare. Oggi è classificata superstrada ma allora era una normale statale a due corsie, che si infilava in ogni cittadina o paese incontrato lungo i duecentocinquanta chilometri del suo tortuoso percorso.



Mia madre (che non c’è più e con l’occasione saluto) aspettava il quarto figlio. Poiché mio padre era medico e non un qualunque incosciente, immagino che quel viaggio effettivamente un po’ critico, fosse una sorta di rischio calcolato. Ma il nascituro era una nascitura, con un caratteraccio che evidentemente volle mostrare da subito decidendo di anticipare i tempi, non appena la nave doppio le bianche scogliere di Bonifacio.

Solo che quella volta non si tornò indietro, né venimmo abbordati da nessuna motovedetta. Allora il medico di bordo non c’era e la dotazione dell’infermeria consisteva in una bottiglia d’alcol, qualche rotolo di garza e un paio di forbici. Così mia sorella se ne venne al mondo assistita da Papà, che era si medico ma con tutt’altra specializzazione. Mamma orgogliosamente disse poi, che essendo ormai al quarto parto aveva già una certa esperienza a avrebbe potuto fare tranquillamente da sola.

Noi bambini fummo ovviamente allontanati, ma la nave era piena e ci misero a dormire su un materasso buttato lungo un corridoio, finché un signore preso da compassione non ci cedette la sua cabina. Poiché per un qualche problema burocratico era necessario imporre un nome alla piccola prima dell’arrivo in porto, per puro miracolo i miei riuscirono ad evitare che si chiamasse Olbietta, nonostante le insistenze dell’intero equipaggio. Come secondo nome però gli tocco Alfreda, in omaggio al Comandante che doverosamente venne invitato a farle da padrino di battesimo. Anche lui era avanti con gli anni, come la sua nave. Istriano d'origine e dunque della più vecchia e preparata scuola. Stava per andare in pensione e quell’evento casuale coronò la sua carriera. Lo rividi dopo quattordici anni, mi ero diplomato al nautico ed ero imbarcato su un grosso transatlantico. Andai a trovarlo a Sori vicino a Genova, dove si era ritirato in una bella villetta con vista sulla Riviera di Levante e mi regalò il suo sestante, che naturalmente conservo tra i ricordi più cari.


La notizia ovviamente ci precedette via radio e usci sui giornali ancora prima dell’attracco. Le cameriere di bordo fabbricarono un grande fiocco rosa lacerando le loro sottovesti, che fu appeso allo scalandrone di sbarco. La piccola e i miei genitori furono portati via da un'ambulanza. Seguì per me, che dopo tutto avevo solo sette anni e poco mi rendevo conto della situazione, il momento più bello. Perché fummo affidati agli ufficiali di bordo in attesa che qualche parente ci venisse a prendere, i quali per ingannare il tempo, ci portarono a vedere per la prima volta com'è fatto un ponte di comando.


Olbietta Alfreda oggi è una professionista affermata, è sposata e ha un figlio ormai adulto. Pare non si usi più, ma per qualche tempo ha avuto sul certificato di nascita una sestina di coordinate geografiche, anziché il nome di una città come tutti.

12 settembre 2011




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