Io e De André

 



Fabrizio De André è stato uno dei più noti cantautori del novecento. La sua arte ha unito la musica alla poesia, facendone una nuova forma che perdurerà nel tempo, è impossibile non amarlo, nel suo vastissimo repertorio chiunque può trovare una canzone che lo coinvolga, che gli tocchi il cuore.

Iniziai ad ascoltarlo a tredici anni o giù di li, a casa di un amico. Le sue prime canzoni erano facili e alla portata di ragazzino, anche se piacevano soprattutto ai liceali e gli universitari. Col passar del tempo l’ho seguito sempre più assiduamente, ed è diventato uno dei miei artisti preferiti. Intanto il genio cresceva, coinvolgendo la generazione prima della mia e quella dopo. Mia figlia quando è morto ha pianto. Quando o compiuto cinquant’anni, come capita alle volte, due persone mi fecero lo stesso regalo, il cofanetto della sua opera completa. Una delle due era mio padre.

Il Natale scorso i miei figli mi hanno regalato un bel libro, pieno di immagini. Si tratta di un' autobiografia, ricostruita unendo insieme brani di interviste e alcuni suoi scritti. Sfogliandolo per la prima volta subito l’occhio mi è caduto su una foto particolare, che lo ritraeva giovanissimo di sedici anni insieme alla famiglia, durante un viaggio in Sardegna. Stanno seduti su una panchina di quello che sembra un giardino pubblico. La didascalia parla di Cagliari, ma nonostante i particolari dei contorni siano pochissimi, riesco lo stesso a stabilire che è sbagliata. In realtà si tratta della piazza principale della città di provincia dove ho passato buona parte della mia adolescenza, Iglesias. Quella piazza era ed è, il ritrovo dei giovani del posto, quella dello struscio per così dire, che si trova in tanti nostri paesi e città. Conosco troppo bene quelle panchine (anche se oggi non ci sono più) per sbagliarmi, infatti un rapido giro di email tra amici e parenti conferma immediatamente la mia tesi. E’ stata una scoperta divertente, anche perché a si e no duecento metri in linea d’aria da quella panchina si trova la casa del mio amico, quella dove ho ascoltato per la prima volta i suoi dischi. Prima coincidenza, ma la cosa non è finita qui.

Durante le feste dello stesso Natale sono andato con mia moglie, ad un convegno sulla storia del paese dell’hinterland cagliaritano dove risiedo attualmente, Capoterra, invitato da un consigliere comunale nostro amico. Fra gli altri argomenti si è trattato dello sviluppo dell’economia locale, che dopo un periodo di sfruttamento minerario si basò, a cavallo della seconda guerra mondiale, sulla attività di grandi aziende agricole. Le famiglie che le controllavano erano tre, una discendeva da un ramo della nobiltà sarda, le altre due erano forestiere, provenivano una dal Piemonte e l’altra dalla Lombardia. Impiantarono coltivazioni molto redditizie, grazie a metodi all’avanguardia per l’epoca, ci seppero fare insomma. Ma col tempo e col cambiare del tessuto economico nazionale, finirono per chiudere e gran parte dei terreni diventarono lottizzazioni residenziali.

Sul libro c’era un’altra foto molto bella, stampata su due pagine. Fatta durante la stessa gita in Sardegna . Lui è ripreso mentre suona la chitarra, mentre un uomo adulto visto quasi di spalle lo accompagna con un flauto traverso. La didascalia dice pressappoco così “Una delle prime immagini di Fabrizio con la chitarra, con P.C. durante una vacanza a Cagliari, a Natale del 1956”. I due sono seduti all’aperto sotto un ulivo. Io non ho molta memoria per i nomi ma mia moglie si, e mi ha fatto notare che il cognome del sig. P.C. corrispondeva con quello di una delle famiglie citate durante il convegno. Ho mandato una email con le foto al mio amico consigliere e ne è venuto fuori un’altra incredibile scoperta.


Le due famiglie continentali, come spesso succede in questi casi finirono per imparentarsi. Al convegno infatti era presente una matura coppia di signori, che col loro matrimonio sancì appunto quella parentela. Loro sono in ottimi rapporti col mio amico per averlo conosciuto fin da bambino, che ci mise poco a coinvolgerli nelle mie scoperte e a farsi invitare a casa per fare una chiacchierata, grazie naturalmente alla loro grande cortesia e disponibilità. Venne fuori che la maggior parte delle foto, compresa quella scattata in piazza Sella, le fecero loro. Ci mostrarono gli originali (hanno ancora i negativi) e ci fecero sentire addirittura un disco inedito del giovane De André, registrato proprio in quella occasione, ovviamente con brani non suoi, era ancora troppo giovane. Essendo gente dotata di mezzi possedevano un registratore semi-professionale, uno dei primi e quindi modernissimo per l’epoca. Dopo la morte dell’artista andarono a ricercare i nastri, che si erano praticamente persi e li fece riversare su un CD. Tante delle cose che ci ha detto le sapevo già per averle lette su internet e altre sul famoso libro, ma è stato emozionante sentirle e averne la conferma da un testimone oculare. La storia riassunta, tra libro, internet e testimone, è questa:

Il padre di Fabrizio, Giuseppe De André, pur avendo origini francesi e nobili, era di modeste condizioni economiche, che migliorò in un primo tempo sposando una ragazza di buona famiglia. Era compagno di studi universitari di P. C. (quello del flauto, sotto l’albero d’ulivo) entrambi vivevano a Torino prima di trasferirsi uno a Genova e l’altro a Rapallo. La signora del convegno di Natale incontrò per la prima volta i De André a Santa Margherita Ligure, durante una vacanza dal nonno, l’unico che restò a Rapallo quando il resto della famiglia si trasferì in Sardegna. Il racconto cominciò a toccarmi, perché tra Rapallo e Santa Margherita sono cresciuti i miei.

Giuseppe De André ci seppe fare e diventò un personaggio in vista a Genova, grazie anche alla politica (partito Repubblicano). Fu vice sindaco, presidente dell’Eridania il noto zuccherificio, e presidente dell’ente fiera oggi Salone Nautico, quando venne inaugurato. Vivevano in una prestigiosa villa di Albaro, uno dei quartieri più “in” della città. Ma gli inizi di tanta fortuna furono questi: era un insegnante con formazione umanistica e acquisto una scuola privata da una vedova, l’istituto Palazzi, quello che poi diventò Palazzi e Rossi, dove io ho studiato per alcuni anni con mio fratello. I soldi glieli prestò l’amico sardo piemontese ma lui glieli restituì fino all’ultimo centesimo. Fra l’altro era persona di spirito, amante delle barzellette e poeta dilettante. Quest’ultima cosa gli riusciva benissimo, poiché componeva versi con particolare facilità. Ecco spiegate certe tendenze e capacità del figlio.

Fabrizio pare che da ragazzino fosse un po’ difficile. A scuola andava male, era capriccioso e attaccava spesso briga col fratello Mauro, che più grande di diversi anni e più giudizioso, lo lasciava benevolmente fare. Frequentò per una anno l’istituto Arecco, famosa scuola genovese retta dai gesuiti che conosciamo bene in famiglia. Vi studiò mio padre alle medie e al liceo classico, e per qualche anno anche io e mio fratello. Poi Fabrizio ovviamente finì nella scuola del padre. La madre, preoccupata che il figlio non si appassionasse a nulla, un giorno gli comprò una chitarra e gli pagò le lezioni da un maestro boliviano. Talmente in gamba evidentemente, che lo fece diventare subito bravissimo. Il primo risultato di quelle lezioni furono quelle serate di musica nelle campagne cagliaritane. E vi posso assicurare che, avendo sentito quel disco, bravo lo era davvero fin da allora.

Tra vari colpi di testa un bel momento se ne andò di casa per stabilirsi a vivere nell’angiporto, il quartiere di Prè e della strada che diventerà leggendaria grazie a lui: Via del Campo. Proseguì gli studi all’università ma non si laureò mai, nel frattempo però cominciò a diventare famoso e benestante di suo. Nonostante questi precedenti è indiscutibile che acquisì comunque una poderosa cultura, soprattutto letteraria. Il resto è storia conosciuta.

Altre coincidenze:

Fabrizio De André si sposò per la prima volta il giorno del mio compleanno. Amò due regioni in particolare, la Liguria e la Sardegna. Nella prima ci sono nato, nella seconda ci vivo da moti anni.

Raccontò in una delle sue canzoni la tragedia della London Valour, la nave naufragata sugli scogli della diga foranea di Genova il 9 aprile del 1970, quel giorno ero a Genova.

Raccontò del Supramonte, della Gallura e dei pastori sardi. Come solo chi conosce profondamente quell'ambiente può fare. E chi lo conosce altrettanto bene come me può apprezzare. 

Raccontò trasformandola in poesia di un'altra immane tragedia genovese, l’alluvione del 1970. Lo fece nel suo ultimo album, quando ormai la sua opera aveva toccato l’apice e forse il suo cuore esaurito ogni argomento, è uno dei suoi pezzi più belli. Certo non poteva sapere, anche perché accadde dopo la sua morte, che un'altra alluvione avrebbe devastato quella campagna dove si era esibito in un giorno tanto lontano della sua gioventù, e che una scellerata politica di urbanizzazione avrebbe riempito di sfortunate case. Questa mi tocco in prima persona, non mi sono ancora ripreso e chissà se accadrà mai. Quanto il ricordo ritorna a ferirmi mi metto a canticchiare Dolcenera.

30 maggio 2013



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