L'oro di Tabarca

 

Navigare nel grande oceano dei libri lo si può fare in diversi modi. Quello più sicuro è farsi consigliare o seguire la corrente degli autori famosi, classici o moderni. Ma è più affascinante scoprirseli da soli, magari per caso e incappando in qualcuno quasi sconosciuto. Così un giorno, bighellonando sul lungomare di Camogli, mentre aspettavo che mia moglie uscisse da una delle sue frequenti e interminabili visite in un negozio di abbigliamento, sono entrato in una libreria. Era minuscola ed orientata, dato il circondario, ai libri turistici. Grandi volumi fotografici o vere e proprie guide, roba così. Non è passato molto prima che l’occhio cadesse su un libricino formato tascabile “La Via Romana a Genova” Pier Guido Quartero, edizioni Libero di Scrivere.
La ricetta è più o meno questa: l’autore è un dilettante appassionato di storia, anche se ormai scrive da diversi anni. Tenendo presente che Genova se si considera solo il suo sviluppo urbano è una città molto particolare. Stretta tra mare e monti è più lunga che larga, invece che avere la superficie sviluppata in ogni direzione come la maggior parte delle città, è un lungo nastro che si srotola da Capolungo alla Vesima per circa quaranta chilometri. La Via Romana a cui si fa riferimento è l’Aurelia, oggi strada statale che ha l’onore di essere contraddistinta col n° 1 e che va da Roma a Ventimiglia. Lungo la medesima, quasi fosse un fiume, si è sviluppata la città, ma il tracciato originale si è perso tra palazzi nuovi e vecchi, ricostruzioni post belliche e non ultime le convenienze politiche. Il nostro Quartero ha ricostruito il tracciato più probabile dell'antica Consolare, unendo come nel gioco dei puntini numerati, antiche chiese, manufatti medievali e targhe storiche. Ne risulta un viaggio affascinante da fare rigorosamente a piedi, anche se necessariamente a tappe. Mi sono divertito a ricostruirlo con la moderna strumentazione satellitare, anche i viaggi possono esser virtuali, ma prima di lasciare questo mondo mi sono ripromesso di farlo per davvero.
Come le ciliegie che una tira l’altra, sono poi andato a cercare altri testi dello stesso autore, per imbattermi quasi subito in un titolo magnetico “L’oro di Tabarca”. Tabarca è un'isoletta della costa tunisina, Anzi lo era, perché l’angusto stretto che la separava dalla terraferma ha finito per insabbiarsi e scomparire. La storia di Tabarca è conosciuta penso da pochi italiani, da una buona parte di liguri, da almeno la metà dei sardi e dalla totalità dei sulcitani. Cinquant’anni dopo la scoperta dell’America, verso il tramonto della Repubblica marinara di Genova, una ricca famiglia di imprenditori i Lomellini, raccoglie le quote di altri facoltosi imprenditori e decide di colonizzare quel piccolo scoglio. Lo scopo è duplice: installare una base militare lungo le rotte commerciali dell’epoca, tormentate e infestate dai pirati, e sfruttare la pesca del corallo, l’oro di Tabarca appunto. Materialmente a farlo, oltre ai militari manda uno sparuto gruppo di pescatori di Pegli. Pegli è oggi un quartiere di Genova che ricade lungo la striscia di quaranta chilometri di cui si è detto. Pare storia da poco, ma quei pionieri rimangono e prosperano su quella specie di barca di pietra per quasi duecento anni. Dove oltre alla pesca del corallo sviluppano le tecniche molto particolari e difficili di quella del tonno.
La storia di Tabarca come enclave genovese, termina con la caduta della Repubblica marinara. Non più difesa militarmente cade a sua volta in mani barbaresche. Una parte degli abitanti riesce ad ottenere dalla Casa Savoia la concessione di un‘isola a sud ovest della Sardegna. Si chiamava allora Isola degli Sparvieri, il che la dice lunga sull’ospitalità ambientale che trovarono. Divenne poi Isola di San Pietro e il nascente centro abitato fu intitolato Carloforte (Forte di Carlo) in onore al re Carlo Emanuele III che concesse il territorio. Un'altra parte dei nativi di Tabarca si ostina a rimanere sul posto e finisce schiava. Ma non viene abbandonata, un gruppo dei loro precedenti concittadini si adopera per finanziarne il riscatto, e con loro viene colonizzata anche Calasetta, situata su Sant'Antioco l'isola attigua a San Pietro. Anticamente si chiamava Cala di Seta per via del bisso, un filato pregiato estratto dalle conchiglie Pinna Nobilis di cui il mare della zona era ricco.
L’Oro di Tabarca è un romanzo storico, frutto di fantasia si ma con continui precisi, fondati e reali riferimenti alla realtà. Con tanto di quadro cronologico iniziale. Lo avevo appena comprato quando ho scoperto che in realtà si tratta di una trilogia. I libri che seguono sono L’eredità di don Diego e Il segreto dell’alchimista. La cui trama d’insieme si snocciola lungo quei duecento anni, raccontando le vicende di un’unica famiglia, da Genova a Carloforte passando per Tabarca. Se ancora non vi ho incuriosito, senza rovinare nulla vi dirò che il romanzo comincia con gli ultimi giorni di vita di un ammiraglio abbastanza conosciuto, un certo Cristoforo Colombo. Uno degli ultimi personaggi è una ragazza, si chiama Balbina Contu, è schiava di predoni e viene liberata con un gesto d’eroismo da un giovane tabarchino, è sarda originaria di Sant’Antioco. Le ultime righe del terzo libro citano un vino arcinoto a noi del posto, il Carignano del Sulcis.



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