L'escursione

 


Per quanto uno faccia esperienza, in qualunque campo, è ben facile dimenticarsi le regole fondamentali, anche le più banali.

Ieri sono andato a fare un'escursione sui monti dietro casa mia, solo o quasi, col cane. Vedo già alcune facce contorte in una smorfia di disappunto e con ragione. Anche loro pensano quello che penso io da sempre: regola n° 1 in mare e in montagna mai da soli. Ma la mia vita ultimamente è un po’ incasinata, al punto che coordinarsi con un amico, anche per una semplice gita è diventato impossibile, a causa dei miei e degli altrui impegni. Così saltuariamente mi incammino per brevi e facili sentieri, o almeno questa è l’intenzione di base.

Però, fatta già la mano a quello stradale, mi sono dotato di un amico artificiale, un navigatore tascabile da escursione. E’ un giocattolo del tipo “non me ne faccio niente, ma mi piace e me lo compro”. Dà un grande aiuto se saputo usare, anche se è un modello economico e non ha praticamente cartografia. E’ dotato di bussola, altimetro e naturalmente GPS. La funzione più utile è la registrazione del percorso. Ovvero registra a intervalli regolari di tempo i punti del cammino che faccio, come un Filo d’Arianna, in modo tale che, male che vada, posso ripercorrere il sentiero a ritroso e non perdermi mai.

In teoria!

L’uscita l’ho decisa venerdì pomeriggio, ma è saltato fuori un contrattempo sul lavoro dell’ultimo momento, e sabato mattina ho dovuto vedermi con alcuni operai. Sono intervenuti per un guasto grave ad una stazione di pompaggio, lasciando a metà quello che stavano facendo a semplice mia richiesta. Se non l’avessero fatto una lottizzazione di duecentocinquanta famiglie poteva rimaneva senz’acqua per un intero weekend. Mi assecondano sempre e non mi deludono mai, come quelli dell’amaro Montenegro. Il meno che potessi fare era andare a vedere a che punto erano, e se potevo fare qualcosa per dargli una mano. Siccome è gente in gamba, quando sono arrivato avevano quasi finito. Intanto però si sono fatte le dieci, la moglie mi dice che potrei comprarmi un panino, partire per l’escursione e rientrare quando voglio. Sembra un gesto gentile, ma in realtà mi sta dicendo di levarmi dalle palle. L’unico impegno che abbiamo per il resto della giornata è la figlia che viene a cena, ma sappiamo già che arriverà tardi perché anche lei oggi lavora.

Vado, il programma è questo: devo raggiungere la vetta del monte Lattias, la cima più alta del basso Sulcis. Non è la prima volta che ci provo, l’ultima ho seguito un certo percorso che a un certo punto ho dovuto abbandonare per mancanza di tempo. Oggi voglio seguirne un altro e se tutto va bene ricongiungermi a quello della volta precedente. Raggiungo in macchina Mitza Fanebas (fonte amichevole, propizia) a mezzogiorno e da li mi avvio a piedi imboccando una stretta valle scavata da un torrente. Siamo agli inizi della primavera, l’acqua è abbondante e il primo problema si presenta con un guado. In questo punto una volta c’era un ponticello, ma la corrente e i vandali se lo sono portati via un po’ per uno. Me la cavo alla grande, senza nemmeno bagnarmi i piedi dentro gli scarponi.

Nonostante le previsioni incerte la giornata è stupenda, il primo tratto del sentiero lo conosco a menadito e me lo godo in tranquillità. L’odore della vegetazione risvegliata dalla primavera è penetrante. Incontro i primi contrassegni marca sentiero del CAI, strisce rosse e bianche. So che non posso farci affidamento, perché questa zona, nonostante sia la sede di una delle più vaste oasi del WWF in Europa, è piuttosto trascurata, sia dal CAI che dallo stesso WWF. E infatti dopo mezzora ogni segnavia sparisce, il sentiero che prima era abbastanza largo anche se abbastanza intralciato dal verde, è diventato stretto e si addentra nel fitto del bosco. Nessun problema finora, anche se ogni tanto perdo il tracciato la vegetazione è rada, quel tanto che basta per camminare senza troppi problemi. Lecci, sughere, tassi e ginepri sono il mio orizzonte. Intanto la salita si fa più ripida. E’ la una e trenta e mi fermo a mangiare il mio panino, condividendolo col cane. Chissà perché in queste occasioni anche il pasto più misero sembra un ricco banchetto.

Riparto, intanto il mio giocattolo registra il percorso e nei punti più caratteristici schiacciando un tasto evidenzio anche un waypoint, ovvero un punto noto che potrò marcare con una descrizione. Con appositi programmi, ma anche con Google Earth, si possono visualizzare sia le tracce che i punti noti, per poi poterli rivedere a distanza di tempo o condividere con altri. Arrivati a un certo punto il navigatore mi dice che il mio obbiettivo dista ancora due chilometri. In pianura e su strada sgombra si possono fare molto comodamente in mezzora, ma in montagna e sapendo che c’è ancora da superare un dislivello di cinquecento metri, non è cosa da poco. Siccome mi sono ripromesso di non stancarmi troppo decido di tornare sui miei passi. Ho una nuova traccia da aggiungere al mio piccolo progetto e per oggi posso accontentarmi.

Magicamente, pur essendo abbastanza sicuro di quello che sto facendo, mi perdo quasi subito. Mi fermo a riflettere e tiro fuori l’aggeggio elettronico. Si in effetti non sto affatto tornando sui miei passi, ma che problema c’è? Basta impostare la rotta in modo che mi riporti al penultimo waypoint, potrei anche tornare indietro ma chi me lo fa fare. Intanto la vegetazione si infittisce e tra me e il punto noto si intromettono maligni picchi rocciosi e corsi d’acqua. Faccio appello alla mia lunga esperienza di escursionista navigato anche senza navigatore, e comincio a prendermi a schiaffi mentalmente. Perché non ho portato i guanti da lavoro, tanto utili per non ferirsi con rami e rocce. Altri schiaffi perché non ho portato le cesoie da giardiniere, eccezionali per liberarsi dai rovi più ostinati. In meno di mezzora il mio poetico cammino alpestre diventa un film di guerra. Sono Rambo, con tanto di strappi, ferite, eccetera. Purtroppo l’unica cosa che mi manca rispetto a Silvester Stallone è la prestanza fisica. Mi afferro a un ramo, si spezza, vado giù per la discesa senza controllo, incontro a un altro ramo che però non si spezza e mi ferma sgarbatamente. Ho un graffio in fronte e mi fa male una costola, ma alla fine il rapporto dei danni è limitato.

Il marchingegno dice che sto seguendo un percorso parallelo a quello dell’andata, questo va bene, ma all’andata era molto più aperto e facile. Comincia a venirmi un po’ di panico, diciamo controllato. In effetti non c’è ragione, le montagne rispetto al mare aperto hanno un grande vantaggio, sono percorse da valli e corsi d’acqua. Non devo far altro che seguire il torrente che sento scorrere vicinissimo. Anche se so che non è lo stesso che ho risalito all’andata, conosco la zona quanto basta per sapere con certezza che però è uno dei suoi affluenti. Di questa stagione dopotutto, se male andando fossi costretto a passare la notte fuori, me la caverei al massimo con un raffreddore. Ma la preoccupazione aumenta lo stesso, perché so che mia moglie trascorse due ragionevoli ore dopo l’orario che si è fatta idea circa il mio ritorno, comincerà a preoccuparsi anche lei e questo non mi và.

Il navigatore continua a funzionare benissimo e mi tranquillizza, so che sto seguendo la direzione giusta. Intanto però la luce comincia a diminuire, arriva qualche nuvola e la vegetazione si infittisce sempre di più (l’ho portata la torcia elettrica? No! Altro schiaffo mentale). A un certo punto un velo di nebbia si stende sul piccolo schermo dell’apparecchio e lo rende quasi illeggibile. E no diamine è il 23 marzo non è possibile, non è che ti stai rompendo maledetta trappola? Mi fermo a ragionare, mi passo una mano sulla faccia per asciugarmi il sudore e il mistero si spiega, ho perso gli occhiali. Impossibile tornare indietro a cercarli, con poca luce e ….. senza occhiali, mi vedo a malapena i piedi. Saranno il danno e la punizione più grossi della giornata, erano multifocali, superleggeri e piuttosto costosi. Mi consolo pensando che avevano almeno cinque anni e che dovevo comunque rifare una visita oculistica.

Il cane in tutto ciò non mi aiuta, o almeno così mi sembra. Ogni tanto sparisce per i fatti suoi e mi tocca chiamarlo a lungo per farlo tornare. Altre volte, quando mi fermo per decidere la via migliore, si sdraia e aspetta che percorra un bel tratto prima di decidersi a seguirmi controvoglia. Poi arriva l’idea, la più banale e al tempo stesso la più ovvia. Lui è un cane da caccia e si chiama Rigel, come una delle stelle più luminose del firmamento, ci sarà pure un motivo no? Forse è il caso che segua io lui e non viceversa. Infatti non passa un quarto d’ora che non solo riesce a trovare il tracciato giusto, ma ha cura di scegliere quello più praticabile anche per me, dato che lui passerebbe dappertutto e io invece no. Lo bacerei in bocca.

Mi fermo di nuovo a riprendere fiato, guardo l’orologio, al massimo verrò sgridato per essere arrivato tardi a merenda, ma non per cena. Invece niente sgridate, appena mi presento mia moglie scoppia a ridere e dice “Ma ti sei visto come sei conciato”. Sulla schiena gli spallacci dello zaino hanno lasciato il segno sullo sporco di terra, come un costume da bagno sull’abbronzatura. Le braccia sono quelle di un martire flagellato. Mentre mi faccio la doccia sono felice, pirla, ma felice.

24 marzo 2013


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