Il mio primo giorno di guerra

 



Quand’ero ragazzo con un gruppo di amici ci si mise in testa di organizzare una rappresentazione teatrale. Erano i primi anni settanta e l’argomento era ancora attualissimo, ricordo la battuta di apertura:

“Gli uomini di trent’anni in Vietnam non hanno mai conosciuto neppure un giorno nella pace…”

Mi rimase impressa perché appena la sentii pensai subito che gli europei della mia generazione potevano dire l’esatto contrario e bastava avere qualche elementare cognizione storica per rendersi conto che non era fortuna da poco.

Questa cosa mi tornò alla mente una notte di due anni fa, una delle più brutte della mia vita, che me ne stavo in mutande sul balcone di casa e guardavo con le lacrime agli occhi i dintorni:

C’è un odore nauseabondo, il caldo è soffocante nonostante siamo ormai alla fine di ottobre ma soprattutto è insopportabile l’incredulo pensiero di ciò che è appena successo, che non mi fa dormire. Sono solo in casa, il silenzio è totale, non passa anima viva e nemmeno macchine, tutta la zona è chiusa e presidiata dalla polizia. Manca l’energia elettrica, di conseguenza anche l’acqua, sul comodino ho una candela. So di non poter usare nemmeno il wc, perciò mi arrangio come posso direttamente dal balcone, come non avrei mai fatto in condizioni normali.

Ripercorro a mente gli avvenimenti a partire dalla scorsa mattina e da questo stesso balcone. Come ogni giorno appena messi i piedi in terra ho dato un’occhiata fuori, per giudicare il tempo e decidere come vestirmi. Appena uscito per bloccare i portelloni, mi si è presentato uno spettacolo mai visto. Il cielo è coperto da nuvole bassissime, c’è una densa foschia e tutt’intorno a trecentosessanta gradi scoccano innumerevoli lampi. Però stranamente non si sente nessun tuono, segno che sono molto lontani.

Mi vesto per andare in studio e suggerisco a mia moglie (che da poco lavorava con me) di rimanere a casa. Sicuramente prima o poi il temporale ci investirà e se manca la luce c’è da stare attenti che la cantina non si allaghi. Quando esco dal cancello sono le otto, sta cominciando a piovere e il traffico è lentissimo. Di norma ci metto circa mezzora, questa mattina impiegherò quarantacinque minuti, capita che col brutto tempo molte più mamme accompagnino i figli a scuola, qualche motociclista rinuncia al suo mezzo preferito ed ecco che il traffico si complica.


Sono quasi in ufficio quando arriva la prima telefonata al cellulare, è Tittì mia moglie, quasi terrorizzata: “guarda che sta venendo giù il finimondo e non so che fare”. Cerco di tranquillizzarla e pensando ai temporali degli anni scorsi mi chiedo se non stia un po’ esagerando. Ma ho ancora negli occhi quello spettacolo surreale, quel carosello di saette preludio di una giornata che non sembra affatto normale, un sorta di presagio. Senza pensarci ancora su faccio inversione e torno indietro.

Non riesco nemmeno a uscire dalla città, il traffico già lento prima è letteralmente impazzito. Una delle vie di disimpegno si è completamente allagata. Ma anche questo è normale in autunno, il Comune non fa mai la manutenzione dei tombini e zac…

Comincia a venirmi una certa agitazione, ingrano la marcia e superando le prime macchine ferme mi butto nel fiume che ha preso il posto della strada. La gente mi guarda come fossi matto e non ha tutti i torti. Faccio circa trecento metri e il motore comincia a tossire per poi spegnersi del tutto, l’acqua è a livello del pianale, ma per fortuna non è ancora entrata. Con l’aiuto del motorino d’avviamento riesco a raggiungere un piazzale leggermente sopraelevato, il parcheggio di un supermercato. Entro per calmarmi un po’ e per valutare il da farsi, è insolitamente affollato per quest’ora del mattino, di gente che ha fatto più ho meno la stessa cosa, è entrata per ripararsi. I cellulari squillano in continuazione, nonostante il tempaccio funzionano ancora, anche se a singhiozzo. Sento una signora che è accanto a me parlare col marito, ha la faccia pallida e intuisco subito due cose: vive nella mia zona e non sta andando per niente bene. Appena chiusa la comunicazione mi racconta che un’auto le ha sfondato la vetrata del soggiorno ed è entrata in casa spinta da una ondata d’acqua.

Nel frattempo la polizia ha transennato la rampa d’accesso del ponte che scavalca lo stagno e si collega alla statale che va verso casa. Ora praticamente siamo in trappola, non possiamo né uscire dalla città né rientrarvi. A sprazzi riesco a comunicare con Tittì e vengo a sapere il peggio: l’acqua arrivando da chissà dove ha raggiunto quasi l’altezza del cancello.

I telefonini continuano a squillare, ma sono cambiati gli interlocutori, è ormai impossibile comunicare con casa, ma arrivano le chiamate di amici e parenti. Io impotente e inebetito sono ancora chiuso nel supermercato senza saper dare risposte. Per fortuna riesco a parlare con mio figlio, che vive e lavora a sessanta chilometri di distanza per un ente pubblico che per ragioni d’istituto è molto ben informato sulla situazione. Le preoccupazioni aumentano, pare che la diga situata a monte poco distante sia in serio pericolo di crollo, il consiglio degli esperti è di evacuare immediatamente. Si ma come? Con l’aiuto di chi e con cosa?




La mattinata passa e ormai non c’è più alcun dubbio sull’accaduto, perché la notizia si è sparsa a livello nazionale e cominciano a essere trasmessa da radio e telegiornali: “Un disastroso nubifragio, senza precedenti, ha colpito la Sardegna meridionale. Vaste zone sono state alluvionate, ci sono delle vittime”.

Verso mezzogiorno mi arriva finalmente una buona notizia, mio figlio percorrendo una rete di strade di campagna è riuscito a prelevare la madre e il cane, il livello dell’acqua è già sceso di molto e qualche strada è tornata a essere percorribile, sia pure con grosse difficoltà. Riusciamo a riunirci a casa di un amico che ci ospita a pranzo e ascolto per la prima volta la versione di un testimone oculare, mia moglie:

Appena si è resa conto di quello che stava succedendo ha preso il cane e si è rifugiata al piano di sopra, il gatto lo ha già fatto di sua iniziativa. Dal balcone ha assistito all’avanzare del muro d’acqua, che con velocità folle ha aggirato la scuola elementare (che fortunatamente a quell’ora era ancora vuota), ha attraversato la piazza e ha investito la casa. Per fortuna non era sola, i vicini le hanno fatto compagnia dal balcone a fianco. Per buona parte della mattina hanno visto auto passare galleggiando e andarsene verso il mare. Un uomo è riuscito ad aggrapparsi ad un albero e in quella posizione ha trascorso diverse ore senza che nessuno potesse azzardarsi ad aiutarlo. Di mezzi di soccorso nemmeno l’ombra, non una barca, non un elicottero, nulla. Lo stato d’animo è di puro panico, non sanno se il peggio è già arrivato o no. La recinzione è sparita sotto la furia della corrente. Gli alberi si sono man mano piegati sempre di più e quelli più giovani sono stati sradicati. Tutte le macchine, anche quelle parcheggiate nei giardini interni se ne sono andate. A un tratto si è sentito uno schianto, una delle porte finestra del piano terreno ha ceduto e l’acqua, ma soprattutto il fango, hanno invaso la casa.

Dopo pranzo non sto più nella pelle, mi faccio accompagnare dall’amico Mario verso casa, il traffico ha ripreso anche se molto lentamente e ironia della sorte è uscito anche un bel sole. A qualche chilometro dall’arrivo siamo fermi in coda, le forze dell’ordine obbligano le macchine o a tornare indietro o a parcheggiarsi nelle zone rimaste asciutte, perciò scendo e proseguo a piedi. Eccole le prime scene di guerra, i mezzi di soccorso sono arrivati, soprattutto esercito e vigili del fuoco. Lo spettacolo è impressionante, l’acqua si è ritirata e ha lasciato uno strato ormai livellato di almeno cinquanta centimetri di fango su ogni cosa. C’è ben poco da fare, le strade sono ingombre di gente che non sa da che parte girarsi, forze dell’ordine comprese. Arrivo finalmente e faccio un rapido sopralluogo, i mobili del soggiorno e della cucina al piano terra sono curiosamente ammassati al centro dell’ambiente, a faccia in giù, probabilmente per effetto di un vortice. C’è un odore nauseabondo, perché è chiaro che la piena devastante non era d’acqua pulita, ma si è mischiata al letto dei torrenti, al fondo del laghetto della diga, alla fogna e a chissà cos’altro. Nei dintorni è un disastro. Gli argini del rio che passa vicino a casa sono ingombri di carcasse di vetture, carogne di animali e rottami di ogni genere.

Il traffico sta per paralizzarsi di nuovo e sta per calare la sera, il mio amico torna a casa ma io non me la sento di andarmene con lui. Un po’ di esperienza di questi eventi ce l’ho anche se indiretta, subito dopo i disastri i primi ad arrivare col buio sono gli sciacalli. La stima dei danni è presto fatta ad occhio e croce abbiamo perso due terzi della casa, non voglio perdere quel poco che resta e questa notte dormirò qui, costi quello che costi e nonostante le voci ancora incerte e contraddittorie sulla stabilità della diga. Col senno di poi ci ho ripensato mille volte e mille volte avrei rifatto la stessa cosa. Si fa notte sono solo sul balcone la tensione comincia ad allentarsi e mi scendono le prime lacrime.




Il mattino per fortuna arriva presto, col primo chiarore vedo arrivare anche li primi esseri umani dopo una notte di assoluta solitudine. Sono tutti ragazzi, vestiti malamente con vecchi jeans o tute da lavoro e stivali di gomma. Sono armati fino ai denti di pale, scope, secchi e stracci. Moltissimi hanno il familiare fazzolettone degli scout al collo. Qualche fugace esperienza di questi eventi l’avevo già avuta, ebbi occasione di vistare Genova subito dopo il disastro del 70’. Ricordo che un enorme striscione copriva buona parte della facciata liberty della stazione Brignole, diceva: “Genova ringrazia i suoi giovani” oggi più che mai capisco perché: sono stati i primi ad arrivare e saranno gli ultimi ad andarsene.

Anche i giorni che seguirono sono indimenticabili. La piazza davanti a casa, dove c’erano i giardinetti, è stata occupata per settimane dalle tende della Protezione Civile e da una enorme torre faro alimentata da un generatore diesel. Elicotteri e aerei hanno sorvolato la zona per giorni. Quello che non ha fatto l’alluvione viene metodicamente completato da qualche soccorritore maldestro: cadono lampioni fortunosamente rimasti in piedi colpiti da camion frettolosi. Spariscono interi filari d’alberi spianati dalle ruspe. Le opere di urbanizzazione, strade, acquedotto, fogne e impianti elettrici, vengono devastate dai mezzi pesanti.

Mentre molti hanno preferito mollare tutto e andarsene in albergo (soluzione messa a disposizione tempestivamente, bisogna riconoscerlo, dalle autorità) o perché troppo sfiduciati o perché effettivamente impossibilitati dalle condizioni fisiche ed economiche, noi abbiamo preferito restare e rimboccarci le maniche. Furono giorni di massacrante lavoro, che riuscimmo a superare solo grazie al valido aiuto di parenti ed amici.

Oggi che scrivo sono passati già due anni, nulla è stato fatto per la messa in sicurezza della zona e i rimborsi promessi, già del tutto insufficienti in fase di perizia, sono arrivati solo per metà. Ma nonostante abbiamo perso due terzi della casa, due motocicli, subito ingenti danni alle auto, smarrito per sempre tutti i ricordi più cari di una vita, senza contare il giardino che ci era costato sei anni di lavoro, la fatica e l’umiliazione di quei giorni di ricostruzione peraltro non ancora del tutto finiti; di fronte a l’Aquila, Messina e proprio nei giorni scorsi la Bassa Padovana, che Dio li aiuti tutti, in fin dei conti ci sentiamo anche fortunati.

E forse è ingiusto paragonare quell’evento ad un giorno di guerra, che non abbiamo mai conosciuto e se Dio vuole mai conosceremo. In fondo la nostra piccola alluvione ha fatto “solo” cinque morti.


Dolcenera

Amìala ch'â l'arìa amìa cum'â l'é
amiala cum'â l'aria ch'â l'è lê ch'â l'è lê
amiala cum'â l'aria amìa amia cum'â l'è
amiala ch'â l'arìa amia ch'â l'è lê ch'â l'è lê
Guardala che arriva guarda com'è com'è
guardala come arriva guarda che è lei che è lei
guardala come arriva guarda guarda com'è
guardala che arriva che è lei che è lei

nera che porta via che porta via la via
nera che non si vedeva da una vita intera così dolcenera nera
nera che picchia forte che butta giù le porte

nu l'è l'aegua ch'à fá baggiá
imbaggiâ imbaggiâ
Non è l'acqua che fa sbadigliare
(ma) chiudere porte e finestre chiudere porte e finestre

nera di malasorte che ammazza e passa oltre
nera come la sfortuna che si fa la tana dove non c'è luna luna
nera di falde amare che passano le bare

âtru da stramûâ
â nu n'á â nu n'á
Altro da traslocare
non ne ha non ne ha

ma la moglie di Anselmo non lo deve sapere
ché è venuta per me
è arrivata da un'ora
e l'amore ha l'amore come solo argomento
e il tumulto del cielo ha sbagliato momento

acqua che non si aspetta altro che benedetta
acqua che porta male sale dalle scale sale senza sale sale
acqua che spacca il monte che affonda terra e ponte

nu l'è l'aaegua de 'na rammâ
'n calabà 'n calabà
Non è l'acqua di un colpo di pioggia
(ma) un gran casino un gran casino

ma la moglie di Anselmo sta sognando del mare
quando ingorga gli anfratti si ritira e risale
e il lenzuolo si gonfia sul cavo dell'onda
e la lotta si fa scivolosa e profonda

amiala cum'â l'aria amìa cum'â l'è cum'â l'è
amiala cum'â l'aria amia ch'â l'è lê ch'â l'è lê
Guardala come arriva guarda com'è com'è
guardala come arriva guarda che è lei che è lei

acqua di spilli fitti dal cielo e dai soffitti
acqua per fotografie per cercare i complici da maledire
acqua che stringe i fianchi tonnara di passanti

âtru da camallâ
â nu n'à â nu n'à
Altro da mettersi in spalla
non ne ha non ne ha

oltre il muro dei vetri si risveglia la vita
che si prende per mano
a battaglia finita
come fa questo amore che dall'ansia di perdersi
ha avuto in un giorno la certezza di aversi

acqua che ha fatto sera che adesso si ritira
bassa sfila tra la gente come un innocente che non c'entra niente
fredda come un dolore Dolcenera senza cuore

atru de rebellâ
â nu n'à â nu n'à
Altro da trascinare
non ne ha non ne ha

e la moglie di Anselmo sente l'acqua che scende
dai vestiti incollati da ogni gelo di pelle
nel suo tram scollegato da ogni distanza
nel bel mezzo del tempo che adesso le avanza

così fu quell'amore dal mancato finale
così splendido e vero da potervi ingannare

Amìala ch'â l'arìa amìa cum'â l'é
amiala cum'â l'aria ch'â l'è lê ch'â l'è lê
amiala cum'â l'aria amìa amia cum'â l'è
amiala ch'â l'arìa amia ch'â l'è lê ch'â l'è lê
Guardala che arriva guarda com'è com'è
guardala come arriva guarda che è lei che è lei
guardala come arriva guarda guarda com'è
guardala che arriva che è lei che è lei

Dall'album Anime Salve - F. de Andrè - in ricordo l'alluvione del 1970 a Genova

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