Ricordati che devi morire

 


Nel medioevo questa frase era un monito usato dai religiosi verso il popolo per indurlo alla preghiera, al pentimento, ma anche all'obbedienza. Non mancavano certo le cause di morte, la vita media era veramente breve e difficilmente ci se ne dimenticava. Oggi con mille difese immunitarie, ma soprattutto con mille distrazioni non ci pensiamo proprio, a meno che non ci capiti qualcosa che ci faccia da promemoria. E così domenica scorsa mi sveglio con un brutto cerchio alla testa. Cerco di alzarmi ma mi mancano le forze, mi trascino malamente verso il bagno per alleggerire almeno l’impianto idraulico, mi gira la testa e devo tornare di corsa a letto. Era tanto che non mi succedeva, la notte prima abbiamo mangiato fuori ma niente di che, pasta ai ricci e fritto misto, ecco quello di sera certo non aiuta. Ma soprattutto non abbiamo bevuto, mezzo litro di vino in tre è una dose da convento. Quando sono andato a letto stavo benissimo, mi sono anche attardato a guardare un po’ di TV.

Mi giro e mi rigiro, mi viene nausea, mi rialzo perché sento arrivare una scarica di dissenteria, senza nemmeno un dolorino di preavviso. Nel frattempo comincia a farmi male un braccio e qualche campanello d’allarme si mette a trillare. Mia moglie si è svegliata e mi assiste, lei mi vede e io no, mi dice che sto sbiancando. Mi tasta sente il braccio e le mani fredde. Mi chiede se voglio che chiami un medico ma in questi casi sono il primo indeciso, mi ignora e chiama il 118. Ho giusto il tempo di darmi una sistemata infilandomi una tuta da ginnastica sopra il pigiama, intanto il dolore al braccio aumenta e non riesco quasi più a muoverlo. Arrivano veloci tre giovani, sono volontari due ragazze e un ragazzo. Mi misurano la pressione e parlano col medico che li coordina al telefono. Si scambiano qualche dato: pressione, battito, temperatura.

« Quale braccio le fa male? » «Il destro. » «Bene, perché di solito quello che denuncia l’infarto è il sinistro » «Che culo ! » rispondo. «Probabilmente non è niente, però ormai siamo qua, decida lei. Può chiamare la guardia medica, oppure la portiamo in ospedale così fa un bel controllo e non ci pensa più »

Viviamo in una casa a più livelli disimpegnati da scale abbastanza strette. Mi sono sempre chiesto come farebbero a portarmi fuori se mi succedesse qualcosa e, bene oggi lo scopro. Riesco a camminare facendomi aiutare, perché altrimenti i miei quasi novanta chili avrebbero dovuto calarli dal balcone. Mi fanno salire su una bella ambulanza nuova fiammante e sdraiare su una barella larga come una tagliatella, non so dove poggiare il braccio dolorante ma partiamo. Non è la prima volta è la terza, nelle altre due ho fatto una volta il barellato (colica renale) e un'altra l’accompagnatore (lussazione di spalla di mia moglie, durante una chiassosa notte di capodanno). Ormai sono esperto e quindi posso segnare un altro punto a discarico sulla tabella delle preoccupazioni, perché la sirena resta spenta. Però l’autista, l’unico maschio dell’equipaggio non posso fare a meno di pensare, guida peggio di quelli della CTM, veloce e senza sconti. Gioco ad indovinare il percorso aiutato dai rumori e da quel poco che intravedo attraverso la striscia superiore de vetri smerigliati. Un tamburellare ritmico come quello del treno mi avverte che stiamo passando sui giunti di dilatazione del Ponte della Scafa. Altri rettilinei e ampie curve, qualche ciuffo d’alberi, poi intravedo il pennacchio del ponte strallato a tensostruttura che scavalca la SS 554, una costruzione ardita che ricorda la Torre Azadi di Teheran. Infine passiamo sotto la metropolitana, a Cagliari ce solo una linea e quindi so che siamo arrivati al policlinico. In questo ospedale ho salutato mio padre per l’ultima volta e non mi è di conforto, segno un più uno.

Passaggio di consegne. Il tizio che mi riceve è basso, pelato e tarchiato. E’ parecchio incavolato perché è domenica ed è solo al ricevimento. In più un gruppo di parenti indisciplinati suona in continuazione per chiedere sempre le stesse notizie. Lo sento minacciare di chiamare i carabinieri, mentre penso: « Cominciamo bene »

Finalmente restiamo soli, è burbero e mi fa subito capire che siccome siamo tra uomini può trattarmi da commilitone senza tanti complimenti. Ma senza scadere nella malagrazia ha una calma molto professionale e movimenti precisi. Mi riempie di elettrodi, pop, pop, pop, pop. Mi attacca una molletta al dito e una fascia al braccio, altra misurazione di pressione. Poi a tradimento mi infila qualcosa nell’orecchio, questione di qualche secondo, « temperatura timpanica » leggero più tardi sul referto. Infine mi buca un braccio con un ago per la flebo, di misura maxi scoprirò perché quelli medi erano finiti e quelli piccoli erano troppo piccoli. Dev’essere un vero professionista perché ha la mano leggera come una piuma e quasi non me ne accorgo. Attacca una rete web di fili alle mie ventose, pic,pic,pic,pic. Subito dopo sento una serie di bip come in Medici in prima linea. Si siede al PC e scrive.

La prima fase è finita e mi sbarella lungo un corridoio. Gli ambienti che attraversiamo sono coloratissimi, rossi, verdi e gialli. Mi deposita in una stanza gialla e anche questo è un buon segno. Dopo non molto vengo preso in consegna da un altro giovane infermiere, anche questo è professionale ma anche molto gentile, il che non guasta. Chiacchieriamo mentre mi palpeggia e mi prepara per la visita. Nella stessa stanza c’è una dottoressa seduta ad una scrivania, la riconosco dalla stola sul collo a forma di stetoscopio. Poco dopo si alza mi bombarda di domande e mi ausculta in lungo e in largo. Ha già il tracciato dell’elettrocardiogramma e i parametri di base, quindi può dirmi che in prima analisi non ho nulla, però faranno dei prelievi di sangue per approfondimento. Veloce scambio di provette, tramite l’ago di Varenne (noto cavallo da corsa, un puro-sangue per l’appunto) che ho nel braccio e mi spillano come l’oste dalla dalla botte.

Altro trasferimento in lettiga, vengo parcheggiato in una stanza silenziosa accanto a una signora. Occhio e croce ha qualche anno più di me e, o sta molto male o è assopita perché è perfettamente immobile. E’ in tuta da ginnastica come me, ha una vestaglia che le fa da coperta e un berretto di lana poggiato sul ventre. Mi preparo perché so che ora ci sarà da aspettare parecchio. Prima di lasciarmi l’infermiere mi attacca una flebo. Il soffitto è a quadroni bianchi e qualcuno di questi fa da plafoniera. Stando disteso non posso fare a meno di guardarlo, alla lunga la luce mi da fastidio agli occhi, devo chiuderli. Aiutato dal ritmico bep degli strumenti di rilevamento cardiaco delle sale vicine piano piano mi addormento. Per il momento fine delle trasmissioni ma anche delle preoccupazioni. Naturalmente si tratta di un dormiveglia, non potendo cambiare posizione mi sveglio ogni poco a causa del mio stesso russare. La mia compagna è ferma sempre nella stessa posizione e il berretto di lana che ha sulla pancia non si è mosso. Alla fine si sveglia, o più probabilmente la sveglio io con qualche grugnito e ci diciamo buongiorno. Intanto il dolore al braccio è quasi passato.

Prelevano la signora per qualche altra destinazione, mi spostano più in la e mi danno un altro compagno. Non posso fare a meno di notare che sulla lettiga ha una voluminosa borsa porta documenti, come quella degli avvocati. Posizionano un paravento tra me e lui, ne deduco che devono visitare uno dei due. Arriva infatti una dottoressa non giovanissima ma ben curata. Muove decisa verso il mio giaciglio e mi chiede con voce ferma e rassicurante:

« Allora signor Cocco, mi racconti i suoi malanni. »

Non faccio in tempo a rispondere, perché dall’altra parte del muro di tela il mio nuovo compagno protesta:

« Dottoressa guardi che il signor Cocco sono io! »

Lei sobbalza lievemente, mi guarda, sorride si scusa e scompare al di la del muro. Inizia un lungo dialogo fatto di concise domande e risposte. Questo signore ha una lunga storia di frequentazioni ospedaliere, conosce tutti quelli della zona, ha subito diverse crisi cardiache e installazioni di valvole artificiali. Ogni tanto sente degli scompensi e si precipita in ospedale chiedendosi tutte le volte se non sarà l’ultima. Dai rumori intuisco che nella borsa ha il suo archivio completo di referti, che sfoglia con familiarità e illustra con date e terapie. Cita ogni farmaco con precisione e cognizione di causa, lo si capisce perché la dottoressa lo corregge molto raramente. Deve naturalmente fare attenzione a quello che mangia, ma anche a non alterare le porzioni di frutta e verdura da un giorno all’altro, perché le diverse quantità influiscono sui dosaggi delle medicine che prende. Comincio a pensare che io invece mi sono fatto ricoverare per una stupida scarica di diarrea, mi vergogno come un ladro.

Passa ancora del tempo finché finalmente torna la mia dottoressa, quella con la stola. Col sorriso sulle labbra mi dice che anche gli esami del sangue sono regolari e non c’è motivo che mi trattenga. Mi ordina riposo per il resto della giornata (capirai, è domenica) e una dieta leggera almeno per i primi giorni. Con molta probabilità si è trattato di un semplice episodio influenzale e dovrò comunque parlarne col medico di famiglia.

Esco nella sala d’aspetto. Mia moglie è arrivata poco dopo l’ambulanza ed è rimasta senza notizie per tutto questo tempo.

« E allora, cos’hai? »
« Niente, sembrerebbe »
« Due a uno con l’ambulanza, la prossima è mia »

Guida tranquilla verso casa, molto meglio dell’autista del CTM. E’ una bella giornata, mi guardo intorno e penso:

« Ricordati che devi morire. »

Come Massimo Troisi, uno che invece non ce l’ha fatta, e mi rispondo da solo:

« Si, ora me lo segno. »

18 gennaio 2018



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